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5‰, chi prende “troppo poco” non avrà nulla

L’intenzione del governo di inserire uno sbarramento verso il basso è stata confermata dal sottosegretario Luigi Bobba al Convegno “10 anni di 5 per mille” organizzato da Vita a Bologna la settimana scorsa. «Se per chiedere il contributo si spende di più di quanto si incassa, si arriva al non-senso». Per avere la certezza occorre attendere un Dpcm (Decreto Presidenza Consiglio Ministri).

«Ricevere il 5 per mille è cosa buona, ma deve valerne la pena»: così il sottosegretario Luigi Bobba ha chiarito un passaggio concettuale del prossimo decreto sul 5‰ che il governo ha scritto e presentato in Consiglio dei Ministri, e che attualmente si trova al vaglio delle Commissioni parlamentari. Si va dunque verso l’inserimento di uno “sbarramento verso il basso” per le piccole organizzazioni che ricevono poche decine di firme: sotto una certa soglia di contributo, è parso di capire, non si avrà nulla. «Che senso ha attivare la procedura, magari farsi pubblicità, e ricevere 5 o 10 euro?», si è chiesto Bobba. «Se le spese amministrative e lo sforzo organizzativo è ben superiore al vantaggio, non ne vale proprio la pena».

Parole chiare, che attendono una conferma scritta, che potrebbe arrivare anche attraverso lo strumento di un Dpcm da emanare successivamente al 3 luglio data della definitiva chiusura dell’iter della Riforma del terzo settore. E sempre a un futuro Dpcm si affida anche un’altra spinosa questione: quella dello “sbarramento verso l’alto”, una misura cioè che “impedisca” alle grandi organizzazioni di portarsi a casa quantità illimitate di euro a scapito delle altre che possono contare su una platea più contenuta di sostenitori; quanto così ricavato sarebbe poi ridistribuito agli enti “poveri”. Che, tra l’altro, sono la maggioranza assoluta: ricordiamo infatti che nel 2015 – ultima annualità pubblicata – il 92% degli enti ha raccolto meno di 500 firme, e il 4,5% addirittura zero, mentre le associazioni con oltre 5000 sostenitori erano solo 174 su oltre 39mila.

«Questo sarebbe un provvedimento di una iniquità assoluta», ha però ribattuto Niccolò Contucci, direttore generale di Airc (Ricerca sul cancro), la prima organizzazione per consensi con oltre 65 milioni di euro raccolti.

Vedremo come andrà a finire.

Fonte: Vita.it, 6 giugno 2017

 

 


Intervista al sottosegretario al Welfare con delega al Terzo settore Luigi Bobba

 

Partiamo dall’inizio. Perché il 5 per mille va riformato?
Un primo cambiamento importante è già avvenuto. Nella legge di Bilancio 2015 per la prima volta è stato fissato un finanziamento strutturale alla legge. Il che ha consentito di uscire da una condizione sperimentale per cui di anno in anno la legge veniva rifinanziata senza però né una verifica, né un monitoraggio appropriati. Questo passaggio ha “invocato” la delega contenuta nella legge 106 che in sostanza individua quattro punti su cui lavorare.

Vediamoli…
Il primo è la razionalizzazione dei criteri di accreditamento dei soggetti beneficiari. Il secondo è la revisione dei requisiti per accedere al beneficio. Terzo: una semplifica- zione delle procedure per il calcolo del contributo. E in parte questa delega è già stata assolta con il decreto del Presidente del Consiglio del luglio scorso che ha introdotto il principio in base al quale i soggetti beneficiari non devono presentare ogni anno la documentazione richiesta per l’accesso alla misura. La quarta delega infine riguarda gli obblighi di trasparenza dell’utilizzo delle risorse.

Torniamo per un attimo però ai limiti che riscontra nel 5 per mille così com’è oggi…
Il primo nodo è quello della forte concentrazione verso l’alto: un numero limitato di soggetti raccoglie infatti una fetta molto larga delle risorse. Ai primi 720 enti, quelli sopra i 50mila euro l’anno, viene corrisposto un importo complessivo pari a circa 310 milioni. Se si prende poi chi sta sopra il milione di euro l’anno, ci sono 40 soggetti che totalizzano circa 200 milioni su 485 milioni (quelli assegnati in base alla dichiarazione dei redditi del 2014). La fotografia risulta ancora più nitida se consideriamo i soggetti che ricevono da 100mila euro in su, che sono poco più di 300. Questo risulta se miriamo al vertice della piramide. Si nota però un fenomeno singolare anche se guardiamo verso il basso. Ci sono oltre 2mila enti (su più di 53mila soggetti iscritti) che non ottengono alcun contributo (in ragione del fatto che non hanno alcuna sottoscrizione) più altri 3mila che sono sotto i 100 euro per i quali il costo della procedura è quindi superiore al beneficio: difficile comprendere perché circa 5mila soggetti (il 10% del totale) si sono iscritti, ma non usufruiscono dell’istituto. Questo mi fa dire che il criterio al beneficio forse va reso più sostanziale.

Come raggiungere la meta?
La linea che stiamo mettendo a punto è quella di far sì che l’accesso avvenga esclusivamente attraverso il Registro unico del Terzo settore. Oggi invece abbiamo una procedura di natura meramente formale in base alla quale l’Agenzia delle Entrate, verificando il fatto che sei un’organizzazione di volontariato, un’associazione di promozione sociale, una onlus e così via, automaticamente ti inserisce nell’elenco senza che siano presi in considerazione criteri sostanziali. Il fatto che per tanti anni questa sia stata una misura sperimentale ha finora sospeso ogni attività di verifica. Così oggi è verosimile che nell’elenco ci siano enti non più operativi, ma noi non ne abbiamo alcuna contezza. Un riscontro plastico ce lo dà il censimento dell’Istat che aveva inviato il format a 476mila soggetti, per poi censirne solo 301mila.

Cosa significa in concreto “criteri sostanziali”?
Vuol dire che andremo a valutare le finalità, le attività effettivamente svolte e l’impatto sui beneficiari. D’altra parte l’articolo 4 della legge delega del Terzo settore stabilisce che l’accesso ai benefici e ai sostegni al non profit è necessariamente vincola- to all’iscrizione al registro.

Quali saranno invece le innovazioni legate alla rendicontazione?
Su questo punto è già intervenuto il dpcm del luglio scorso a cui accennavo in precedenza. Quel testo già delinea un modello di rendicontazione delle attività. Io credo che, oltre agli aspetti formali e burocratici, che sono comunque importanti, dobbiamo trovare il modo per promuovere una rendicontazione pubblica, accessibile e trasparente. Penso a un sito ad hoc gestito dal ministero. Un luogo dove si debbano inserire informazioni contabili, ma anche il racconto dell’effettivo utilizzo di quelle risorse, in modo che il portale diventi anche un volano per promuovere il 5 per mille. Così facendo potremo anche coprire, almeno in parte, il quarto punto della delega: quello di garantire l’efficacia degli interventi.

Puntare sulla trasparenza e l’impatto però di per sé non è uno scudo rispetto alla concentrazione delle risorse. Come proverete a sciogliere questo nodo?
Stiamo pensando di riprendere una proposta che aveva già fatto l’Agenzia per il Terzo settore presieduta da Stefano Zamagni in cui si prevedeva che la parte relativa al non optato (che oggi viene ripartito in modo proporzionale rispetto alle scelte espresse e vale circa il 10/15% del totale) venisse destinata agli enti che stanno sotto una de- terminata soglia.

Avete pensato anche di chiudere i rubinetti a chi invece si trova al di sotto di un certo limite?
Oggi la norma prevede che non vengano ripartiti fondi a chi raccoglie meno di 12 euro. Una strada potrebbe essere quella di alzare la soglia, magari in una prospettiva pluriennale. Per esempio: accedi ai fondi solo se raggiungi almeno cento euro in tre annualità.

Si aspetta che la platea del nuovo 5 per mille sia ridotta rispetto a quella attuale?
Non è detto. Immagino che ci siano uscite, ma anche nuove entrate, soprattutto se la riforma incentiverà l’utilizzo di questo strumento. In ogni caso certamente dovremo alzare il grado di osservazione in modo da avere politiche di gestione e in- dirizzo più efficaci.

È allo studio un’esclusione dagli elenchi delle cooperative sociali, come dicono alcuni rumors?
Affronterei la questione con un’ottica di ordine generale. Quello che va cercato è un equilibrio fra le varie forme di facilitazione fiscale. L’ipotesi è quella di differenziarle a seconda della tipologia di soggetto. Ripeto è un ragionamento d’insieme che non necessariamente porterà all’esito che evoca la sua domanda. Potrebbe, ma non è detto. Io dico questo: è chiaro che un’organizzazione che si basa esclusivamente o prevalentemente sull’impegno volontario, e che quindi non genera in se stessa lavoro o ricchezza, dovrà poter contare su una corsia preferenziale rispetto alle risorse ti tipo donativo ed erogativo. Il 5 per mille fa obiettivamente parte di questa specie e può costituire uno degli elementi principali a sostegno di questa tipologia di organizzazioni. L’idea quindi che il 5 per mille premi soprattutto l’impegno volontario variamente organizzato credo che possa essere un principio da cui partire. Ma questa è solo una faccia della medaglia.

L’altra qual è?
Se andiamo ad introdurre un regime fiscale favorevole per gli investimenti di capitale per le nuove imprese sociali, è evidente che questa facilitazione non ha nessun significato per un’organizzazione di volontariato. Per le quali sarebbe uno strumento inutile e disconnesso dalla loro natura. Noi dobbiamo far sì che tutti i supporti fiscali siano il più possibile conformi alla finalità dei diversi enti del Terzo settore.

Cosa risponde invece alla richiesta di molte delle organizzazioni aderenti al 5 per mille e in particolare dei responsabili delle raccolte fondi di avere accesso ai nominativi dei “loro firmatari”? Porte chiuse o c’è qualche spiraglio?
Ci stiamo ragionando. Ma ci sono molte obiezioni. Per esempio: all’interno di organizzazioni di piccole dimensioni questa norma si trasformerebbe in una sorta di controllo ex post perché sarebbe facilmente identificabile chi non versa. Oppure pensiamo al fatto che fra i destinatari ci sono anche le università. E magari il 5 per mille potrebbe fare gola ai professori di quel determinato ateneo…Ecco non voglio per forza pensar male, ma effettivamente ci sono una serie di obiezioni che forse mi fanno pendere per il no, anche se comprendo le ragioni della sollecitazione. Penso che sia preferibile mantenere la totale “non identificabilità” del contribuente in modo non solo da evi- tare delle potenziali derive, ma anche da preservare la natura originaria del 5 per mille che presuppone un’effettiva libertà da parte di chi lo sottoscrive.

Pensate anche a un tetto rispetto alle spese di pubblicità?
Stiamo valutando se sia utile, sensato e possibile procedere in questa direzione. Già oggi c’è già un vincolo: non si possono utilizzare risorse raccolte direttamente con il 5 per mille per fare promozione. Per questo scopo possono essere utilizzate solo fondi che arrivino all’organizzazione attraverso altri canali. Il blocco totale della pubblicità favorirebbe i soggetti più piccoli e meno organizzati, ma d’altra parte sarebbe in divieto difficilmente controllabile. Il rischio che rimanga una norma solo sulla carta c’è.

Chi fa parte della task force che sta mettendo a punto il testo del decreto?
C’è un gruppo di lavoro abbastanza ristretto a cui partecipano insieme a noi rappresentati dell’Agenzia delle entrate e del Dipartimento delle Finanze: si tratta di profili tecnici. Molto però dipenderà a monte da quello che scriveremo nel Codice del Terzo settore, penso alla questione dell’accesso ai benefici. Il Registro infatti sarà disciplinato dal Codice.

Questo significa che il decreto sul codice verrà prima di quello sul 5 per mille?
È verosimile: la regolamentazione del 5 per mille sarà l’ultimo provvedimento relativo alla legge delega di riforma del Terzo settore

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