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Oratori: luoghi inclusivi … in uscita

Non solo una riflessione pastorale ma una serie di suggestioni utili a comprendere l’orizzonte entro il quale si può collocare oggi l’attività degli oratori in Italia. È stato il prezioso apporto fornito da don Marco Ghiazza, prete della diocesi di Torino, da quattro anni assistente ecclesiastico nazionale dell’Azione cattolica ragazzi (Acr), in occasione della Conferenza organizzativa di Noi associazione, che ha visto confluire negli ambienti del Villa Quaranta Tommasi Wine Hotel & Spa di Ospedaletto di Pescantina una sessantina tra presidenti, segretari e addetti di segreteria degli enti territoriali dell’associazione.

Parole come oratorio, territorio e formazione assumono connotazioni diverse in un contesto articolato come quello italiano, ben rappresentato da Noi associazione presente con i suoi 1.400 circoli da Aosta a Messina, da Bolzano a Cosenza, da Trieste a Napoli. Pluralità di significati, di esperienze e dunque anche di percorsi, stili e proposte. Don Ghiazza si è collocato convintamente nell’orizzonte dell’Evangelii gaudium di papa Francesco, l’esortazione apostolica del 2013 che è il documento programmatico del pontificato, e nel discorso che il Santo Padre rivolse ai rappresentanti della Chiesa italiana il 10 novembre 2015 durante il Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, che delineava il piano per la Chiesa in Italia alla luce di Evangelii gaudium.

La “scelta missionaria” (EG 27) è l’elemento chiave e da essa l’oratorio non può esentarsi. Di fronte al rischio paventato dal Papa del ripresentarsi di due eresie antiche, lo gnosticismo e il pelagianesimo, «evitiamo di andare alla ricerca di ricette e di soluzioni pronte e di copia-incolla che non tengono sufficientemente conto della realtà – ha esortato don Ghiazza –. Il primo “atto di fede” è questo: la mia comunità, la mia parrocchia, la mia diocesi, il mio circolo è bello, quindi non ho bisogno di copiare pedestremente quello che è successo a 500 km da qua. La rete associativa mi farà fare delle belle scoperte, ma non perché sorga in me sicuramente l’invidia, ma nemmeno la fretta di replicarle tali e quali. Mi mette nelle condizioni di cercare insieme, senza la fretta di omologare». Il secondo atto di fiducia va posto nella gente. «Abbiamo bisogno di credere nella bontà delle persone, così non le vedremo più soltanto esecutrici delle nostre strategie».

Don Ghiazza ha poi presentato i cinque atteggiamenti che qualificano la Chiesa in uscita, delineati nel n. 24 di EG, mettendoli in relazione con gli ambiti vissuti all’interno di Noi associazione. Anzitutto prendere l’iniziativa: «Non è soltanto avere un po’ più di energia, di entusiasmo – ha spiegato l’assistente dell’Acr – è proprio l’anticipare. Non accontentarci di essere alla moda, al passo coi tempi, ma provare a vedere più in là, giocare d’anticipo». Occorre quindi andare oltre l’idea (e la tentazione) di fare la versione cattolica di quanto altri propongono per renderlo più affascinante. «Noi sappiamo quanto i nostri oratori siano presidi di popolarità, ma dobbiamo allo stesso tempo vigilare di continuo. Quante volte le famiglie si aspettano che i nostri luoghi siano più sicuri e che per essere più sicuri dunque siano anche un po’ selettivi? E diventando selettivi paradossalmente vengano meno alla ragione per la quale sono nati, cioè di essere luoghi inclusivi». La parrocchia è “casa tra le case” e l’oratorio può dare molto «per continuare a far sì che la Chiesa rimanga casa in un mondo di gente che vuole chiudersi dentro il suo piccolo spazio».

Prendere l’iniziativa (primerear è la voce gergale argentina utilizzata dal Papa) porta a coinvolgersi col territorio, quindi con le altre organizzazioni, le agenzie educative e le istituzioni, puntando ad “accorciare le distanze”. «Forse significa anche superare la logica mondana della convenienza come unico modo per cui entro in rapporto con qualcun altro», ha affermato don Ghiazza.

“La comunità evangelizzatrice si dispone ad ‘accompagnare’ – scrive il Papa in EG 24 –. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere”. «Il progetto è la parola che dice i processi, l’accompagnamento è qualcosa che ne evoca la via – ha commentato il sacerdote torinese –. I nostri oratori sono più ricchi quando riescono a elaborare un progetto educativo che non è la sola somma di singole iniziative, non è il calendario, ma è lo sguardo sulla vita delle persone. Il progetto è anche quel momento nel quale più soggetti si incontrano e scoprono che nessuno deve necessariamente fare tutto, ma realtà diverse si riconoscono complementari» e non in competizione tra loro. Anche la formazione concerne l’accompagnamento. «L’essere associazione è molto più di una forma giuridica; non possiamo accontentarci di pensare che sia uno stratagemma per andare in Comune e chiedere i contributi che come parrocchia non potrei ricevere. Forse possiamo accompagnare la Chiesa a riscoprire la soggettività del laicato e accompagnare quest’ultimo a prendere sul serio il suo ruolo, ad essere consapevole di qual è la missione della Chiesa, di cos’è l’efficienza secondo la Chiesa».

La comunità cristiana è chiamata ad essere feconda, sa fruttificare. Quali frutti? «Per noi le relazioni vengono prima delle prestazioni, sono più importanti – ha semplificato don Ghiazza –. L’essere associazione ecclesiale diventa una speciale palestra di sinodalità».

Infine “la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre ‘festeggiare’”, verbo che evoca la vita degli oratori. «Ci sono le feste della fede che la liturgia celebra, ma ce ne sono anche molte altre. Penso alla creatività che un oratorio potrebbe mettere nell’intercettare i linguaggi umani». Dalla festa per i 18 anni a quella degli innamorati, al variare delle stagioni. «La festa non produce niente, non è utile, non è efficiente ma esprime la bellezza della gratuità». Quella stessa manifestata dall’esperienza del volontariato che «conserva un enorme valore profetico perché nel primo e nel secondo settore ciò che è gratuito non vale niente», mentre «nel Terzo settore ciò che è gratuito vale di più, perché rappresenta la bellezza dell’umano».

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FONTE: Verona Fedele del 27 ottobre 20019