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Tutti Samaritani #15

pillola #15

Qualche settimana fa concludevo un intervento pubblicato su “Avvenire” con riferimento al “Terzo settore” e all’attenzione che responsabili, dirigenti, operatori e volontari dovrebbero avere nei confronti della cosiddetta “riforma” che sta impegnando il nostro tempo, l’attenzione, lo studio.

Questo il brano conclusivo, che termina con le prime parole della parabola di cui s’è servito Gesù per spiegare al provocatorio dottore della legge che gli aveva chiesto cosa doveva fare per ereditare la vita eterna: la salvezza.

Occuparsi di Terzo settore non può essere visto come opportunità. L’opportunità è una facoltà concessa al cittadino che deve sentirsi obbligato a preoccuparsi e dedicarsi agli altri. Il cristiano non ha opzioni, ha obblighi: è obbligato a preoccuparsi e dedicarsi agli altri. Il cristiano non può limitarsi a pregare per gli altri, deve impegnare tempo, capacità, risorse per la ricerca del bene comune. Se non lo fa, non è cristiano. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, …..”.

I pochi cristiani che sono andati a Messa domenica 14 luglio hanno ascoltato il racconto dell’evangelista Luca (Lc 10, 30-21), l’unico dei quattro che ne parla, e che comincia proprio con la citazione finale del corsivo.

Ascoltando l’omelia del mio parroco, la fantasia ha galoppato confermando la giustezza della citazione. Non è mia intenzione fare una “predica”, e ne ho doppio motivo: non sono prete e non sono capace di predicare.

L’uomo che scende da Gerusalemme verso Gerico rappresenta tanta gente che nel cammino quotidiano incappa nei briganti che dopo averlo bastonato a sangue lo derubano e lo lasciano ferito e tramortito, impossibilitato a cavarsela da solo. 

Il ferito giace e tace, non ha la forza di chiamare aiuto, è visibile, tutti lo vedono, ma nessuno se ne preoccupa. Tanto o poco, anche coloro che passano trasportano la loro pena, le loro ferite, le legnate, le sconfitte della vita. Ci sono i più fortunati, i vincenti, gli arrivati o arrivisti: quelli che non si fermano, vedono, ma non si fermano. Hanno interessi che li impegnano, hanno diritti da difendere, hanno l’immagine da tutelare, guardano oltre, guardano avanti, al dopo, al domani, al conto in banca, al loro futuro, al benessere, alle ferie, alla casa sul Lago, alla barca nel porto, al prossimo viaggio, alla “mise” per il concerto, al cellulare ultimo modello, alle braghe con gli sbreghi, con le scarselle in mostra, che fanno tanto chic. La descrizione è volutamente forzata, perché anche questi sciccosi si portano addosso le bastonate e le ferite della vita. E forse la sciccheria sono cerotti che nascondono i bernoccoli e le ferite delle bastonate.

Il Samaritano non era residente in quel territorio, era un viandante: passava di là, non conosceva il malcapitato, non sapeva chi fosse né cosa avesse fatto; non si è fermato a chiedere: chi, cosa, perché. Ha agito, ha assistito, ha curato, ha messo in sicurezza un estraneo in difficoltà che neanche conosceva, senza preoccuparsi di quel che sarebbe potuto capitare anche a lui. Ha impegnato le energie, le risorse di cui disponeva, il proprio tempo, il suo cavallo, la sua credibilità.

Prima di lui ne son passati altri, non si è chiesto perché gli altri non si son fermati. Non ha guardato gli altri, ha guardato il ferito, ne ha avuto pena, se n’è occupato. Disinteressatamente.

La Parabola motiva qualche riflessione che si possa applicare al nostro “fare associazione”? Ne sono più che convinto. Oggi è molto difficile imbattersi in un poveraccio lasciato ai margini del sentiero macilento e agonizzante. Sarebbe anche impensabile di mettersi a curarlo e assisterlo: si farebbe meglio a chiamare l’ambulanza.

Ci sono però tante persone bastonate e ferite dalla vita, dalla prepotenza, dalla vergogna di non farcela, dalla mancanza di affetto, dalla povertà affettiva, dall’insuccesso nella scuola, nel lavoro, nei rapporti con gli altri, con gli stessi familiari, con i genitori, dal confronto ingiurioso tra coetanei, dal bullismo, dall’arroganza, dalla presunzione, dallo sfoggio di chi ha e di chi può, dal dolore per problemi di salute, per la perdita di un familiare, da mille e mille altri perché.

Noi stessi portiamo addosso le ferite della vita. Perché, poco o tanto, la vita è difficile per tutti. Magari le difficoltà sono abbastanza uguali per tutti, solo che c’è chi riesce a lottare, a “menare le mani” (in senso buono), a darsi da fare, a trovare soluzioni, vie d’uscita, alternative e ad accontentarsi del poco bene che raccatta e ne gode.

Siamo tutti su una barchetta, c’è chi sa ammainare la vela, chi fatica con i remi, chi gira su sé stesso in un vortice senza senso e senza uscita. La vita è grama per tutti, ma c’è chi se la fa piacere. Anche questa è “fortuna”. Anche la capacità di cavarsela è un “dono”.

E arrivo al NOI. Questo pronome personale che comprende tutti i feriti della vita.

C’è una cantilena che mi rigira nel cervello come un tarlo maledetto, che disturba, avvilisce, mette ansia, paura. Ed è una sfilza di motivazioni incomprensibili, chiusure mentali, scuse che nascondono incapacità di guardare al domani, che parte dall’incapacità di vedere l’oggi, le persone, gli altri, il prossimo, i feriti, i bastonati, gli abbandonati, i meno fortunati.

La riforma del Terzo settore mette ordine nell’associazionismo della promozione sociale. Mettere ordine vuol dire ricollocare le cose al posto giusto, dopo averle spolverate e dopo aver pulito il piano di appoggio. Si tratta di fare ordine e pulizia. La cantilena-tarlo sono le scuse di chi viene in segreteria a raccontare che la riforma fa paura, che impone troppi obblighi, che non ce la si fa a seguire tutto, che ai volontari non si può chiedere l’impossibile, che non c’è più nessuno disponibile a candidarsi, a fare servizio, a impegnarsi per il futuro.

La soluzione prospettata? Lo scioglimento del circolo, la chiusura di tutto.

Il segretario cerca di individuare le motivazioni “vere” della rinuncia. Non ci vuole molto. Si arriva facilmente a capire cosa frulla nella testolina di chi viene a raccontare “storielle”. Non ci son dubbi sulle difficoltà raccontate, i dubbi sono sulle motivazioni. Insomma, la colpa non è di chi non viene più, di chi non si offre più, di chi non si vuole impegnare, di chi non vuole versare la quota associativa, di chi pretende servizi ma non è disposto a farli.

Si ha paura della riforma del Terzo settore perché il comportamento del circolo è tutto tranne che promozione sociale. E si preferisce continuare a operare senza rispetto per norme, regole, principi, perché tanto… “continueremo come parrocchia”.

Al segretario non resta che prendere atto che la parrocchia ritiene di poter fare tutto, in barba a norme, regole e principi. E chissenefrega di coscienza, testimonianza, rispetto, giustizia.

Non avete idea di quanti (veramente tanti) si son lamentati perché la procedura di registrazione del nuovo statuto impegna troppo. Pensate un po’: una procedura che s’è fatta forse non meno di cinque anni fa è diventata un impegno insostenibile, devastante. Non parliamo poi di provare a presentarsi senza il versamento dell’imposta di registro, per la possibile ipotesi di risparmiare 200 euro. “No, non si può”, “Non abbiamo tempo da perdere”, “Abbiamo un lavoro; abbiamo famiglia!”, “Impossibile!”. 

Chi dice che è impossibile, è pregato di non offendere chi ce la sta facendo[1].

Non trovo altre risposte che non siano offensive, e poiché non mi piace offendere, preferisco tacere. Il silenzio diventa la mia condanna. Ma sulla condanna, sono io a dire “chissenefrega!” perché a NOI interessa far trasmigrare il più alto numero di circoli nel nuovo Registro Unico Nazionale del Terzo settore, perché nella riforma vediamo la configurazione esatta del nostro esserci, perché siamo la vera promozione sociale, siamo il vero “terzo settore”, meritiamo davvero il riconoscimento del nostro “fare” per gli altri, ci sentiamo in diritto di essere destinatari di rispetto, innanzitutto, di affidabilità, di credibilità, di sostegno, di risorse. Non siamo terzo settore per trovare, inventare modalità di reperire risorse da destinare alla promozione sociale (o a qualcos’altro), siamo Terzo settore per dedicarci a individuare modalità di promuovere una migliore qualità della vita, convinti che ci sia molto da fare per gli altri, sotto diversi profili umani e umanitari, sociali e assistenziali, di accompagnamento e di intrattenimento, di formazione e di animazione, della cultura (anche spirituale, perché no?) e della conoscenza, dello sport e delle arti, perché a ciascuno sia data l’opportunità di trovare un ambito di espressione personale libera e liberante, fatta di crescita e di valorizzazione, di condivisione e di consapevolezza, per diventare tutti “samaritani” per gli altri, per contribuire seriamente a una migliore vivibilità per tutti coloro che ci passeranno accanto e saranno toccati dalla bontà del nostro sguardo.

Tutto questo non avviene per caso, non succede senza lo sforzo di chi vuole che accada. È il risultato di un progetto, di un obiettivo da non mancare. 

Al disgraziato lasciato mezzo morto lungo il sentiero che scende da Gerusalemme a Gerico il Samaritano non ha chiesto se apparteneva alla sua parrocchia, se era battezzato, se aveva frequentato il catechismo, se era amico dei dottori della legge, o se conosceva almeno qualcuno che lo potesse raccomandare. Lo ha soccorso e aiutato a prescindere.


[1] Stefano Lorenzetto, Chi non l’ha detto – Dizionario delle citazioni sbagliate, pag. 150, Marsilio editore 2019